Cari lettori,
la mia avventura giapponese è terminata. Nei precedenti racconti vi avevo riferito dei tanti aspetti diversi che avevo trovato nella cultura giapponese, e del modo di fare sport qui.
Se ora ho deciso di porre fine alla mia collaborazione con le ragazze è soprattutto per problemi “culturali”, ed in parte per problemi emotivi.
In Giappone vige in tutti i campi una chiara e netta gerarchia, e questo accadeva anche nella squadra da me allenata. C’era la giocatrice più anziana, quindi di grado più alto in gerarchia, e quella più giovane, di grado più basso. Il linguaggio con il quale si rivolgeva la giovane rispetto alla compagna, era un linguaggio di deferenza. E non è solamente come dare del tu o del lei in italiano, è proprio un parlare “diverso”, a livello grammaticale così come a livello di vocabolario. Esempio banale: per dire “scusa”, la giovane doveva dire “simasen”, la grande “gome’” (non so come si scrivano queste parole ma suonavano così!).
Quindi, a tutti gli effetti, la grande era una superiore, e di conseguenza doveva essere la leader.
Appunto, ma cosa significa in realtà essere un leader nella squadra? Se sei un leader devi avere innanzitutto coraggio, prenderti responsabilità nei momenti cruciali, non aver timore di provare cose nuove e trascinare la tua compagna con il proprio esempio.
Il problema è che, col passare del tempo, mi sono reso conto che alla nostra (finta) leader tutto questo mancava.
Se in allenamento batti in salto a 80km/h, palleggi ogni palla e provi colpi nuovi, ma in partita la battuta va a 60km/h, alzi in bagher e nelle palle importanti fai gli attacchi più scontati…be’, allora forse proprio un leader non sei. E la situazione peggiorava quando la (finta) leader colpevolizzava la compagna per non poter essere leader…la quale, a sua volta, entrava in uno stato ansioso devastante, visto che il “capo” la rendeva responsabile del fallimento della squadra. E visto che la ragazza giovane già di per se era una giocatrice piuttosto ansiosa, potrete ben capire in che situazione entrava in campo.
Una vera leader in campo fa tutto ciò che serve per mettere a suo agio (tecnico mentale e fisico) la “follower”. Quindi anche questo era un aspetto che mancava nella nostra squadra.
Alcune volte, quando la giovane si è allenata con ragazze diverse (magari perché la compagna abituale era malata), mi sono reso conto che si liberava di un grosso peso, e si allenava ad un livello nettamente superiore. Questo accadeva soprattutto se le sue occasionali compagne erano giovani, o magari un po’ meno brave di lei. Quando si sentiva “alla pari”, diventava un’altra persona/giocatrice. Mentre la sua compagna, non so se in maniera completamente consapevole, continuava a non volerla far crescere, quasi per ribadire il suo ruolo gerarchico; un po’ come accade con quei genitori che non fanno volare i figli con le loro ali, ma li vogliono tenere morbosamente legati.
Quando ho capito tutto ciò, verso giugno/luglio dell’anno scorso, ho capito che queste dinamiche nella squadra non avrebbero consentito uno sviluppo ulteriore (eravamo passati dal 240° posto nel ranking mondiale al 30°, ma l’obiettivo dell’ultimo salto nei top 15 diveniva praticamente impossibile). Lavorare così portava solo frustrazione. Avevo già avuto un’esperienza simile con una squadra austriaca maschile dal 2008 al 2011, e quella volta avevo pensato che pazienza e costanza mi avrebbero portato fuori dal guado. Invece, quella esperienza mi fece capire che la costanza, ad un certo punto, si trasforma in ostinazione.
Ancora una volta, una qualità positiva, se portata all’eccesso, si trasforma in una qualità negativa. E così ho capito che dovevo cambiare. Ho proposto alla leader di giocare con una ragazza più simile a lei, ed alla giovane di giocare con una ragazza della sua età. Avevo anche identificato le nuove giocatrici, ma alla fine non hanno accettato il cambiamento…ed io ho lasciato.
Molti non hanno capito la mia scelta: ma come, lasciare un ottimo contratto, dopo due anni di duro lavoro, a 18 mesi dalle Olimpiadi a Tokyo ed ancora con la possibilità di qualificarsi…e no, dico io, se non si prendono decisioni difficili che cattivo esempio diamo? 🙂
E magari a Tokyo ci andiamo lo stesso, ho una bella storia sulla mia nuova avventura con i ragazzi italiani che vi racconterò a breve!
The coach