Cari lettori,
è un po’ che non ci sentiamo.
Nel mio ultimo racconto ero in procinto di trasferirmi ad allenare in Giappone, ed ero entusiasta di iniziare questa avventura e di tuffarmi in una cultura così piena di rispetto e di disciplina.
Le cose sono andate come desideravo, ho trovato un accordo con la federazione ed il Comitato Olimpico giapponese, e verso la fine del 2016 mi sono messo a lavorare di buona lena.
Che dire, ora che lavoro qui da circa nove mesi, non posso smentire tutto ciò di positivo che vi avevo descritto l’ultima volta, ma di certo ho vissuto sulla mia pelle l’altra faccia della medaglia. Cercherò di spiegarmi meglio:
RISPETTO
E’ certamente un concetto molto vasto, che racchiude molte sfumature.
Se per esso intendiamo il non recare disturbo al prossimo, il mantenere la privacy e le distanze, il non criticare, be’ allora in Giappone sono campioni del mondo di rispetto.
Ma più mi sono trovato ad interagire con le persone della federazione (ed anche con persone in altri contesti), più mi sono trovato a dover discutere problematiche ed a ricercare soluzioni ad esse, e più ho capito che qui manca una parte a mio parere fondamentale del rispetto: IL CONFRONTO CON L’ALTRO.
In Giappone il CONFLITTO è a dir poco aborrito. Il giudizio esplicito sconosciuto. Il NO qualcosa di impronunciabile. Per me come allenatore, i no sono più importanti dei si. I confronti più efficaci dell’indifferenza. I conflitti indispensabili per andare oltre.
Ma qui sono atterrato nel pianeta dei misteri e dei silenzi. Inquietante.
A mio parere, il vero rispetto si mostra nell’interazione compassionevole (cum pathos), nella capacità di critica costruttiva, nel porre dei limiti a chi ci sta accanto. Altrimenti si tratta di un rispetto formale, ma vuoto di contenuti.
TEMPO
Lo so, sono occidentale, e anche tra gli occidentali sono a volte troppo veloce, vorrei che le cose (soprattutto quelle “politiche”, per quelle tecniche ho la pazienza di Giobbe) cambiassero rapidamente, perché a mio parere il tempo è prezioso, soprattutto nello sport. Qui ho provato a pianificare, a suggerire idee, a mostrare obiettivi concreti. Le poche volte che mi è stato risposto (perché come già detto vige la regola del silenzio), mi è stato detto di attendere. A Febbraio chiedo di comportarci in una certa maniera con una giocatrice; mi rispondono che decideranno il da farsi a Novembre. Per me da impazzire.
EMOZIONI
Certo, anche qui sono perfettamente consapevole che io sono un allenatore che non nasconde le sue emozioni, ma era difficile immaginarsi un popolo così straordinariamente agli antipodi.
Quando ho dei meetings, di ogni genere e con vari addetti ai lavori del beach volley, è come relazionarsi con un computer: ciò che si riceve sono procedure, procedure, procedure. E’ praticamente impossibile capire quali siano le aspirazioni, i desideri, le emozioni delle persone che si hanno davanti. Una delle domande che più mettono in imbarazzo è: “Cosa avresti piacere di fare?”
Questa è stato anche una difficoltà da affrontare con le mie atlete.
COMUNICAZIONE
Certamente il fatto che pochi qui parlino l’inglese non agevola la comunicazione.
Ma più di una volta mi aveva sorpreso il fatto che, nel bel mezzo di una discussione in inglese, la persona con cui parlavo diceva di non parlare inglese, quando volevo comunicare della decisioni prese e magari sgradite al mio interlocutore. Oppure quando esprimevo delle considerazioni che portavano necessariamente ad un confronto.
Il tutto mi si è chiarito l’altro giorno, quando ho letto la notizia che la moglie del primo ministro Abe aveva detto a Trump di non parlare l’inglese, per poi essere smentita da alcuni filmati dove addirittura faceva degli interventi in pubblico in inglese.
Insomma, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
RAZZISMO
Questo è forse l’aspetto più delicato. Me ne aveva già parlato una mia cara amica giapponese, che ha vissuto molti anni all’estero. Come molti isolani, i giapponesi sono isolazionisti e tendono a considerare gli stranieri come “alien”, ossia estranei. Non che personalmente abbia avuto grossi problemi al riguardo, ma è chiaro che il melting pot qui non è di casa. Il tutto, come già detto, con discrezione e rispetto, ma è chiaro che non sei poi così benvoluto. Per fare solo un piccolo accenno al beach volley (del quale peraltro ho scritto molto poco in questo pezzo), molti allenatori con i quali ho provato a cooperare si sono mostrati restii. E ciò accade in tutti gli sport. Pochissimi coach stranieri, chiusura a sistemi, metodologie e approcci psico-pedagogici diversi. Ed è questa la ragione, a mio modesto parere, per cui una nazione con circa centotrenta milioni di abitanti, una solida cultura dello sport nelle scuole, tanti soldi e strutture sportive vince pochissimo a livello mondiale, tranne negli sport che praticamente sono nati qui(arti marziali ad esempio). Ancora una volta, non c’è evoluzione senza il confronto.
Be’, mi rendo conto che il mio stato d’animo ed il mio punto di vista sulla cultura giapponese ora è ben diverso dal precedente articolo.
Vivere e lavorare qui è stato più problematico di come mi aspettassi.
Devo dire che il motivo principale per cui voglio rimanere in Giappone sono le ragazze che alleno. A parte alcune piccole difficoltà accennate sopra, sono le due atlete più volenterose che abbia mai allenato, e si distaccano anche dalla loro cultura per l’apertura mentale con cui accettano le mille cose nuove che gli proponiamo (io da un punto di vista tecnico-mentale, il mio fido scudiero Faggio da un punto di vista fisico).
E poi non si lamentano mai e affrontano tutto col sorriso. Che emozione!!!
The coach