Cari lettori,
ci eravamo lasciati ai 35 gradi di Haiti, ai tuffi in mare dagli scogli resi necessari per ripescare i palloni finiti in acqua durante gli allenamenti. Dove mi trovo ora sarebbe un po’ più impegnativo tuffarsi in mare…
Sono ad Anapa, piccola cittadina sulle sponde settentrionali del Mar Nero, non distante da Sochi, dove sono in corso le Olimpiadi invernali. Ad Anapa la federazione russa ha costruito una grande struttura con campi da beach coperti, e qui veniamo in inverno per allenarci con le mie ragazze che compongono la squadra nazionale. All’interno si sta molto bene, la sabbia è ben riscaldata e c’è anche una grande vetrata dalla quale il sole (le poche volte che c’è…) fa capolino e costringe all’uso di occhiali ben scuri.
Il problema si presenta quando usciamo all’aperto: un vento gelido batte costantemente questa zona, e la temperatura reale, che di norma è di pochi gradi sotto lo zero, si trasforma in temperatura percepita di -15 od anche -20. Le uniche parti del corpo non coperte (leggi per esempio le guance), in pochi secondi si congelano, e poi iniziano a bruciare. L’altra sera, dopo tanti giorni di lavoro senza mai uscire dalla struttura, ci siamo fatti coraggio, e con il mio fidato scudiero Fabrizio Magi abbiamo tentato l’impresa: raggiungere l’unico locale aperto, per andarci a bere una cosa. Distanza circa 2 chilometri. La nostra motivazione era molto alta, e malgrado il buio pesto, il vento gelido ed i cani randagi che ci seguivano, l’umore era molto alto. Quando siamo arrivati, ed abbiamo trovato il locale chiuso, ci siamo sentiti come le truppe di Napoleone nella campagna di Russia: senza più una meta, e con un ritorno proibitivo da dover affrontare. Ma visto che ve lo sto raccontando, evidentemente ce l’abbiamo fatta 🙂
Vi ho parlato di cani randagi: ad Anapa ce ne sono a decine, e non vi nascondo che sulle prime ero un po’ timoroso. Poi ho scoperto che erano gli esseri più innocui del mondo, e che, udite udite, non abbaiavano. Ebbene si: ho incontrato centinaia di cani randagi ad Anapa, ma nessuno abbaia. Mi è allora venuto il sospetto che siano stati educati dalle loro mamme nello stesso modo in cui molti allenatori russi educano i loro giocatori, educati cioè a stare zitti. A non esprimere le loro emozioni.
Questa non è solo una mia teoria. Mi è stato confermato recentemente da alcune mie giocatrici, che spesso gli allenatori che hanno avuto le incoraggiavano proprio al silenzio. Ho allora capito, una volta di più, che razza di rivoluzione copernicana ho proposto alle mie ragazze, dalla prima volta che le ho incontrate, dal primo allenamento che abbiamo fatto. Comunicazione comunicazione comunicazione (nel mio russo super stentato gavarì gavarì gavarì), questo e’ quello che ho chiesto loro, e che continuo a chiedere. Ma all’inizio loro erano molto timorose, mi vedevano, se non proprio come un nemico, come un corpo estraneo. Anche questa sensazione era stata loro comunicata da anni di collegiali, durante i quali gli allenatori russi si sedevano ad un tavolo, e loro ad un altro. E così, un’altra cosa che ho fatto quasi subito, è stato allestire una bella tavolata tutti insieme, nella quale i posti erano interscambiabili, non c’era uno schema fisso. Senza gerarchie, senza ruoli preassegnati, con dinamiche aperte e, a poco a poco, queste ragazze hanno incominciato ad aprirsi, a ridere, a raccontarmi le loro emozioni (emozione, altra parola tabù qui in Russia). Insomma, siamo diventati un gruppo.
Ed ora, nei nostri confortevoli mini appartamenti di Anapa, ci portiamo dall’Italia pasta, parmigiano, pecorino e guanciale (per le uova ci pensano le galline russe), e ci facciamo delle gran carbonare. Le ragazze ridono, e gli allenatori russi maschi ci guardano un po’ perplessi… ma al secondo bicchiere di buon vino rosso sorridono anche loro 🙂
Anche questo è beach volley
The coach